Costume e Società

Come affrontare gli esiti della prima visita e il nuovo futuro che ci attende

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17 Ottobre 2024

Dopo tutti i nostri sforzi di osservazione attenta, obiettiva e distaccata, magari dopo aver condiviso le nostre perplessità e dubbi con il medico curante ed essere riusciti a trovare un consulto presso un geriatra o un neurologo, aver subito l’ansia e la preoccupazione per la trepidante attesa, eccoci al giorno più temuto da tutti i caregiver: la prima visita e diagnosi.

Ricordo come se fosse ieri il giorno della diagnosi della mia nonna: emozioni negative e positive che si passavano la palla come ad una partita di pallamano, tira qui, tira li… uno sballonzolamento emotivo continuo! Nessuno che riusciva a segnare neanche un punto nella mia mente, semplicemente perchè l’unica persona che avrebbe fatto punto era il neurologo con la sua diagnosi tanto attesa e temuta! Attesa perché così avremmo avuto una strada da seguire, avremmo conosciuto il “nemico”, temuta perché c’è sempre il timore che il “nemico” sia un grande cattivo. 

Metafore a parte, la diagnosi è vista sempre con difficoltà per il caregiver, sia in presenza del proprio caro, sia in assenza. Non si sa mai cosa ci aspetterà dopo, chi potrà aiutarci, come ci aiuteranno e soprattutto se ci aiuteranno, ma ancora di più cosa dovremo fare e come cambierà ancora più radicalmente la nostra vita insieme a quella del nostro caro.

Partiamo dalle parole che sicuramente sentiremo: abbiamo trovato della sostanza bianca… la regione del cervello del suo assistito… dalla Tac emerge… valutando gli esiti della risonanza magnetica troncoencefalica… si può desumere che…quante parole difficili, termini medici e tecnici che sicuramente non riusciremo a focalizzare, né a coglierne il significato fisico: figuriamoci arrivare a quello che a noi interessa maggiormente, ovvero le conseguenze. La domanda così diventa una sola sola: “...e ora???” 

La maggior parte dei caregiver che conosco, quando ho posto loro la domanda di quale fosse la patologia che affliggeva il loro caro hanno sempre risposto con affermazioni vaghe del tipo:“boh, forse Alzheimer” oppure “demenza senile” solo perché sono i termini che più nella vita comune si sentono, mentre quello che realmente ha pronunciato il neurologo non lo ricordano, semplicemente perché non hanno capito i termini tecnici utilizzati. A livello pratico, però, tra i “boh” e la “demenza senile” passano tanti interrogativi e soprattutto tante strade diverse che si aprono per loro e i loro cari! 

E’ quindi, importante insistere per avere una diagnosi chiara e a noi comprensibile in modo da dare un nome al nemico che si affronta: dare un nome è il primo passo per conoscere, per rassicurarsi un minimo e affrontare il nuovo cammino. Dare un nome ci mette nella condizione di sapere quali sono i sintomi in modo più chiaro, fare domande successive, interpellare altri specialisti e operatori del settore partendo da un punto fermo chiaro, sapere interpretare e le “stranezze” che affliggeranno i nostri cari e non farci prendere dalla sorpresa, anzi porci nella condizione di giocare d’anticipo, conoscere i modi di fare e le routine automatiche che si presenteranno con l’avanzare della malattia e, soprattutto, cosa non fare correndo il rischio di peggiorare la situazione.

Questo ci toglie dalla spiacevole e improduttiva posizione mentale egoica e accomodante che porta ad affermazioni del tipo “...lo fa apposta!” oppure “...fa parte del suo carattere” quando non sappiamo interpretare i loro atteggiamenti modificati dalla malattia; in primo luogo dobbiamo pensare che gradualmente nel loro agire non ci saranno più filtri, secondi fini e che il loro carattere che conoscevamo bene non sarà più lo stesso perché i loro collegamenti neuronali si modificheranno ogni giorno con l’avanzare della malattia. Quelle affermazioni fanno, purtroppo, parte del mondo dei famigliari che non vogliono affrontare la malattia, che si fanno prendere dal panico, dallo sconforto e che hanno il semplice desiderio, la speranza vana, che siano momenti transitori che non peggioreranno la loro vita, la loro routine. E’ più facile fare queste associazioni, avere queste speranze piuttosto che pensare che si comportano in quel modo perchè è la malattia che gli fa vivere la vita diversamente e la nostra con loro.

Proprio questo è il succo della questione: essere caregiver significa cambiare alcuni aspetti di noi per seguire l'evolversi della situazione clinica del malato, significa, spesso, annullarsi per accompagnare, significa modificare routine, rinunciare a hobby, sacrificare vacanze e la propria famiglia: in una parola essere caregiver significa sacrificio altruistico e sofferenza perché anche il proprio orizzonte cambia radicalmente, insieme a quello del nostro caro. Questa è la realtà che non si vuole vedere, che non si vuole accettare quando non si vuole essere caregiver. Un caregiver accetta questo e molto altro per un gesto d’amore, per restituire al proprio caro l’amore ricevuto, per vivere al meglio i momenti che restano con spirito positivo, per avere, al momento del fine vita, la consapevolezza di aver fatto tutto il possibile senza rimpianti né rimorsi. Quelli che avranno girato la testa dall’altra parte quando il nostro caro “...lo faceva apposta”. 

La diagnosi apre una grande domanda: “sei pronto ad affrontare il futuro che ti attende, insieme a chi ha già accettato di compiere questo viaggio perchè non gli è stato chiesto se voleva farlo?” Ogni caregiver risponderà diversamente, perché ognuno affronta un viaggio diverso, l’importante è che sia un viaggio con le giuste indicazioni da pretendere dalla prima visita… dalla diagnosi!


Dopo tutti i nostri sforzi di osservazione attenta, obiettiva e distaccata, magari dopo aver condiviso le nostre perplessità e dubbi con il medico curante ed essere riusciti a trovare un consulto presso un geriatra o un neurologo, aver subito l’ansia e la preoccupazione per la trepidante attesa, eccoci al giorno più temuto da tutti i caregiver: la prima visita e diagnosi.

Ricordo come se fosse ieri il giorno della diagnosi della mia nonna: emozioni negative e positive che si passavano la palla come ad una partita di pallamano, tira qui, tira li… uno sballonzolamento emotivo continuo! Nessuno che riusciva a segnare neanche un punto nella mia mente, semplicemente perchè l’unica persona che avrebbe fatto punto era il neurologo con la sua diagnosi tanto attesa e temuta! Attesa perché così avremmo avuto una strada da seguire, avremmo conosciuto il “nemico”, temuta perché c’è sempre il timore che il “nemico” sia un grande cattivo. 

Metafore a parte, la diagnosi è vista sempre con difficoltà per il caregiver, sia in presenza del proprio caro, sia in assenza. Non si sa mai cosa ci aspetterà dopo, chi potrà aiutarci, come ci aiuteranno e soprattutto se ci aiuteranno, ma ancora di più cosa dovremo fare e come cambierà ancora più radicalmente la nostra vita insieme a quella del nostro caro.

Partiamo dalle parole che sicuramente sentiremo: abbiamo trovato della sostanza bianca… la regione del cervello del suo assistito… dalla Tac emerge… valutando gli esiti della risonanza magnetica troncoencefalica… si può desumere che…quante parole difficili, termini medici e tecnici che sicuramente non riusciremo a focalizzare, né a coglierne il significato fisico: figuriamoci arrivare a quello che a noi interessa maggiormente, ovvero le conseguenze. La domanda così diventa una sola sola: “...e ora???” 

La maggior parte dei caregiver che conosco, quando ho posto loro la domanda di quale fosse la patologia che affliggeva il loro caro hanno sempre risposto con affermazioni vaghe del tipo:“boh, forse Alzheimer” oppure “demenza senile” solo perché sono i termini che più nella vita comune si sentono, mentre quello che realmente ha pronunciato il neurologo non lo ricordano, semplicemente perché non hanno capito i termini tecnici utilizzati. A livello pratico, però, tra i “boh” e la “demenza senile” passano tanti interrogativi e soprattutto tante strade diverse che si aprono per loro e i loro cari! 

E’ quindi, importante insistere per avere una diagnosi chiara e a noi comprensibile in modo da dare un nome al nemico che si affronta: dare un nome è il primo passo per conoscere, per rassicurarsi un minimo e affrontare il nuovo cammino. Dare un nome ci mette nella condizione di sapere quali sono i sintomi in modo più chiaro, fare domande successive, interpellare altri specialisti e operatori del settore partendo da un punto fermo chiaro, sapere interpretare e le “stranezze” che affliggeranno i nostri cari e non farci prendere dalla sorpresa, anzi porci nella condizione di giocare d’anticipo, conoscere i modi di fare e le routine automatiche che si presenteranno con l’avanzare della malattia e, soprattutto, cosa non fare correndo il rischio di peggiorare la situazione.

Questo ci toglie dalla spiacevole e improduttiva posizione mentale egoica e accomodante che porta ad affermazioni del tipo “...lo fa apposta!” oppure “...fa parte del suo carattere” quando non sappiamo interpretare i loro atteggiamenti modificati dalla malattia; in primo luogo dobbiamo pensare che gradualmente nel loro agire non ci saranno più filtri, secondi fini e che il loro carattere che conoscevamo bene non sarà più lo stesso perché i loro collegamenti neuronali si modificheranno ogni giorno con l’avanzare della malattia. Quelle affermazioni fanno, purtroppo, parte del mondo dei famigliari che non vogliono affrontare la malattia, che si fanno prendere dal panico, dallo sconforto e che hanno il semplice desiderio, la speranza vana, che siano momenti transitori che non peggioreranno la loro vita, la loro routine. E’ più facile fare queste associazioni, avere queste speranze piuttosto che pensare che si comportano in quel modo perchè è la malattia che gli fa vivere la vita diversamente e la nostra con loro.

Proprio questo è il succo della questione: essere caregiver significa cambiare alcuni aspetti di noi per seguire l'evolversi della situazione clinica del malato, significa, spesso, annullarsi per accompagnare, significa modificare routine, rinunciare a hobby, sacrificare vacanze e la propria famiglia: in una parola essere caregiver significa sacrificio altruistico e sofferenza perché anche il proprio orizzonte cambia radicalmente, insieme a quello del nostro caro. Questa è la realtà che non si vuole vedere, che non si vuole accettare quando non si vuole essere caregiver. Un caregiver accetta questo e molto altro per un gesto d’amore, per restituire al proprio caro l’amore ricevuto, per vivere al meglio i momenti che restano con spirito positivo, per avere, al momento del fine vita, la consapevolezza di aver fatto tutto il possibile senza rimpianti né rimorsi. Quelli che avranno girato la testa dall’altra parte quando il nostro caro “...lo faceva apposta”. 

La diagnosi apre una grande domanda: “sei pronto ad affrontare il futuro che ti attende, insieme a chi ha già accettato di compiere questo viaggio perchè non gli è stato chiesto se voleva farlo?” Ogni caregiver risponderà diversamente, perché ognuno affronta un viaggio diverso, l’importante è che sia un viaggio con le giuste indicazioni da pretendere dalla prima visita… dalla diagnosi!

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