Costume e Società

ll senso di colpa verso il nostro caro malato

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29 Ottobre 2024

Tanti sono i sentimenti che possono affliggere un caregiver durante l’adempimento del suo ruolo di assistenza e accompagnamento del proprio caro: senso di impotenza, di abbandono, di smarrimento, di vergogna, di paura, di incapacità oltre alla rabbia per la situazione che, il più delle volte, si subisce vittima degli eventi. 

Uno dei sentimenti non ancora citati finora, ma che maggiormente rischia di affliggere un caregiver intento ad occuparsi del proprio caro malato, è il senso di colpa. Non solo il sentimento che scaturisce dal credere di non essere in grado di fare abbastanza per il nostro caro, ma anche quel sentimento che scaturisce dal sapere che si stanno dicendo bugie. I motivi sono i più disparati: si sa di raccontarsi delle bugie per lasciare acceso un barlume di speranza vana, si sa di raccontare bugie per indorare la pillola al nostro caro quando ci chiede notizie sul suo stato di salute, soprattutto nelle prime fasi della malattia. Lo si fa per mancanza di coraggio? per semplificarsi la vita ed evitare domande a cui non si saprebbe rispondere? sappiamo in cuor nostro che le bugie avranno le gambe corte e che la realtà ci smaschererà, ma le raccontiamo comunque…  

Ricordo bene la prima volta che ho dovuto confrontarmi con il senso di colpa verso la nonna: era a seguito della visita successiva alla diagnosi di Alzheimer. Uscendo dalla visita mi chiese se stava bene e io le ho risposto di sì, un timido sì, a metà bloccato in gola. Magari lei si rese conto che non ero proprio convinta, ma non mi chiese niente di più, forse aveva capito la mia difficoltà, ma non insistette. Pochi minuti dopo non si ricordava più della domanda né della risposta.

Sapevo dentro di me che non erano bugie da dire, ma ogni volta che la sua malattia peggiorava, le cose strane che faceva erano sempre più evidenti: ho iniziato così a cercare di difendermi da questo nemico che sempre più avanzava e incuteva un timore sempre più grande. Il modo più semplice per difendermi era raccontare bugie a lei e, forse, soprattutto a me. Cresceva così in me quel senso di ingiustizia, di scorrettezza, di incoerenza… in poche parole, il senso di colpa!

Il senso di colpa colpisce tutti prima o poi, molte persone vengono colpite nel fine vita, mentre altri al momento della diagnosi e la sorgente può essere la più disparata. Conosco caregiver che nutrono senso di colpa al momento dell'ingresso del proprio caro in una residenza per anziani perché sentono di non aver fatto abbastanza, altri che lo hanno perché non cucinano più le pietanza tanto amate dai loro cari che, con la malattia hanno cambiato gusti, altri che si sentono impotenti vedendo la malattia che avanza.

Quando ero io caregiver, per cercare di domare i sentimenti ho provato ad analizzare le parole singole come se smontando la frase “senso di colpa” in parole singole avessi potuto togliere forza a quella espressione completa e domare così quello spettro. La parola “senso” si potrebbe associare al senso di pesantezza, al senso di inadeguato, al sentimento in generale che può essere fortunatamente anche positivo,  oppure si può associare al sesto senso, quello del cuore che dovremmo ascoltare maggiormente, o ancora più banalmente ai nostri sensi: vista, udito, tatto, olfatto e gusto! 

Ecco allora che ho cominciato a utilizzare i sensi più semplici per passare all’azione, cercando di utilizzare tutti i 5 sensi per scovare il cambiamento, affinare l’osservazione e utilizzare il sesto senso dell’intuito per anticipare le mosse del “tedesco”! Una versione meno negativa e che mi permetteva di essere positiva, anzi propositiva: dove luce non c’è, ho provato ad essere io una tenue luce per me stessa reagendo con proattività e scovando energie nuove in me, l’unico luogo dove poterle cercare e trovare. 

La parola “colpa”, invece, era difficile da analizzare perché ha sempre una accezione negativa: “mi sento in colpa…”, “è colpa di…”, “non ha colpa…”, “è colpa sua…” e via discorrendo. Il problema poi è che i sentimenti negativi che in quei momenti abbiamo nel cuore puntano tutti il dito contro noi stessi! Lo sforzo richiesto allora è un po’ più intenso, ma dovremmo ormai esserci allenati a farlo: osservare clinicamente, ovvero esteriormente e, soprattutto, sempre né giudizi né pregiudizi. 

Allora se ci fermiamo sullo scoglio in mezzo alla tempesta ad osservare la scena del mare inburrasca che ci scuote tutto intorno, potremmo cogliere lontano il bagliore di un faro che ci suggerisce l’unica domanda che ci possiamo porre; una domanda che è come una medicina per lo spirito: “...ma questa situazione è davvero colpa di qualcuno?”. Così semplice e potente al tempo stesso da lasciarci sconcertati! 

Più in generale quando sopraggiunge un lutto, una malattia, un incidente o un cambiamento deve per forza essere colpa di qualcuno, di qualcosa? Impegnandoci un po’ di più in modo sincero e positivo verso noi stessi, si potrebbe riuscire a capire che tutto accade per un motivo a noi sconosciuto, ma che esiste e quindi accettare, rimboccarci attivamente le maniche e spingendoci addirittura oltre nel ragionamento scoprendo che ogni cosa che arriva può essere un insegnamento, una crescita, un cambiamento, una spinta della vita stessa. In pratica occorre coraggio per mettersi al servizio dell’esperienza superiore di vita che ci offre potenti e, potremmo quasi definire, violenti sforzi di crescita.

In un colloquio con un caregiver mi è stato chiesto come io riesca a gestire ognuno con il sorriso e senza sentire la pesantezza del loro vissuto, come riesca a gestire il mio senso di colpa verso la “me stessa” figlia caregiver. La risposta, forse, è proprio nel vedere diversamente quello che succede, cercare coraggiosamente oltre, ovvero nell’unico luogo dove c’è la possibilità di esistenza, di una risposta, un insegnamento o un punto di vista che giustifichi, che sostenga, che conforti e trasformi l’esperienza che stiamo vivendo. La risposta probabilmente la vedremo quando tutto sarà concluso, ma dobbiamo avere fede e fiducia nella risposta e nelle energie che scaturiscono da un approccio propositivo alla situazione, pur drammatica, che stiamo vivendo. 

Non necessariamente dobbiamo farlo da soli: anzi il primo passo per cercare le risposte dove non sembrano essercene è cercare un aiuto rialzando coraggiosamente la testa e trovare così l’ormeggio dello scoglio di pace in mezzo alla tempesta.

Dottoressa Chantal Cerise
La Casa del Caregiver
@lacasadelcaregiver


Tanti sono i sentimenti che possono affliggere un caregiver durante l’adempimento del suo ruolo di assistenza e accompagnamento del proprio caro: senso di impotenza, di abbandono, di smarrimento, di vergogna, di paura, di incapacità oltre alla rabbia per la situazione che, il più delle volte, si subisce vittima degli eventi. 

Uno dei sentimenti non ancora citati finora, ma che maggiormente rischia di affliggere un caregiver intento ad occuparsi del proprio caro malato, è il senso di colpa. Non solo il sentimento che scaturisce dal credere di non essere in grado di fare abbastanza per il nostro caro, ma anche quel sentimento che scaturisce dal sapere che si stanno dicendo bugie. I motivi sono i più disparati: si sa di raccontarsi delle bugie per lasciare acceso un barlume di speranza vana, si sa di raccontare bugie per indorare la pillola al nostro caro quando ci chiede notizie sul suo stato di salute, soprattutto nelle prime fasi della malattia. Lo si fa per mancanza di coraggio? per semplificarsi la vita ed evitare domande a cui non si saprebbe rispondere? sappiamo in cuor nostro che le bugie avranno le gambe corte e che la realtà ci smaschererà, ma le raccontiamo comunque…  

Ricordo bene la prima volta che ho dovuto confrontarmi con il senso di colpa verso la nonna: era a seguito della visita successiva alla diagnosi di Alzheimer. Uscendo dalla visita mi chiese se stava bene e io le ho risposto di sì, un timido sì, a metà bloccato in gola. Magari lei si rese conto che non ero proprio convinta, ma non mi chiese niente di più, forse aveva capito la mia difficoltà, ma non insistette. Pochi minuti dopo non si ricordava più della domanda né della risposta.

Sapevo dentro di me che non erano bugie da dire, ma ogni volta che la sua malattia peggiorava, le cose strane che faceva erano sempre più evidenti: ho iniziato così a cercare di difendermi da questo nemico che sempre più avanzava e incuteva un timore sempre più grande. Il modo più semplice per difendermi era raccontare bugie a lei e, forse, soprattutto a me. Cresceva così in me quel senso di ingiustizia, di scorrettezza, di incoerenza… in poche parole, il senso di colpa!

Il senso di colpa colpisce tutti prima o poi, molte persone vengono colpite nel fine vita, mentre altri al momento della diagnosi e la sorgente può essere la più disparata. Conosco caregiver che nutrono senso di colpa al momento dell'ingresso del proprio caro in una residenza per anziani perché sentono di non aver fatto abbastanza, altri che lo hanno perché non cucinano più le pietanza tanto amate dai loro cari che, con la malattia hanno cambiato gusti, altri che si sentono impotenti vedendo la malattia che avanza.

Quando ero io caregiver, per cercare di domare i sentimenti ho provato ad analizzare le parole singole come se smontando la frase “senso di colpa” in parole singole avessi potuto togliere forza a quella espressione completa e domare così quello spettro. La parola “senso” si potrebbe associare al senso di pesantezza, al senso di inadeguato, al sentimento in generale che può essere fortunatamente anche positivo,  oppure si può associare al sesto senso, quello del cuore che dovremmo ascoltare maggiormente, o ancora più banalmente ai nostri sensi: vista, udito, tatto, olfatto e gusto! 

Ecco allora che ho cominciato a utilizzare i sensi più semplici per passare all’azione, cercando di utilizzare tutti i 5 sensi per scovare il cambiamento, affinare l’osservazione e utilizzare il sesto senso dell’intuito per anticipare le mosse del “tedesco”! Una versione meno negativa e che mi permetteva di essere positiva, anzi propositiva: dove luce non c’è, ho provato ad essere io una tenue luce per me stessa reagendo con proattività e scovando energie nuove in me, l’unico luogo dove poterle cercare e trovare. 

La parola “colpa”, invece, era difficile da analizzare perché ha sempre una accezione negativa: “mi sento in colpa…”, “è colpa di…”, “non ha colpa…”, “è colpa sua…” e via discorrendo. Il problema poi è che i sentimenti negativi che in quei momenti abbiamo nel cuore puntano tutti il dito contro noi stessi! Lo sforzo richiesto allora è un po’ più intenso, ma dovremmo ormai esserci allenati a farlo: osservare clinicamente, ovvero esteriormente e, soprattutto, sempre né giudizi né pregiudizi. 

Allora se ci fermiamo sullo scoglio in mezzo alla tempesta ad osservare la scena del mare inburrasca che ci scuote tutto intorno, potremmo cogliere lontano il bagliore di un faro che ci suggerisce l’unica domanda che ci possiamo porre; una domanda che è come una medicina per lo spirito: “...ma questa situazione è davvero colpa di qualcuno?”. Così semplice e potente al tempo stesso da lasciarci sconcertati! 

Più in generale quando sopraggiunge un lutto, una malattia, un incidente o un cambiamento deve per forza essere colpa di qualcuno, di qualcosa? Impegnandoci un po’ di più in modo sincero e positivo verso noi stessi, si potrebbe riuscire a capire che tutto accade per un motivo a noi sconosciuto, ma che esiste e quindi accettare, rimboccarci attivamente le maniche e spingendoci addirittura oltre nel ragionamento scoprendo che ogni cosa che arriva può essere un insegnamento, una crescita, un cambiamento, una spinta della vita stessa. In pratica occorre coraggio per mettersi al servizio dell’esperienza superiore di vita che ci offre potenti e, potremmo quasi definire, violenti sforzi di crescita.

In un colloquio con un caregiver mi è stato chiesto come io riesca a gestire ognuno con il sorriso e senza sentire la pesantezza del loro vissuto, come riesca a gestire il mio senso di colpa verso la “me stessa” figlia caregiver. La risposta, forse, è proprio nel vedere diversamente quello che succede, cercare coraggiosamente oltre, ovvero nell’unico luogo dove c’è la possibilità di esistenza, di una risposta, un insegnamento o un punto di vista che giustifichi, che sostenga, che conforti e trasformi l’esperienza che stiamo vivendo. La risposta probabilmente la vedremo quando tutto sarà concluso, ma dobbiamo avere fede e fiducia nella risposta e nelle energie che scaturiscono da un approccio propositivo alla situazione, pur drammatica, che stiamo vivendo. 

Non necessariamente dobbiamo farlo da soli: anzi il primo passo per cercare le risposte dove non sembrano essercene è cercare un aiuto rialzando coraggiosamente la testa e trovare così l’ormeggio dello scoglio di pace in mezzo alla tempesta.

Dottoressa Chantal Cerise
La Casa del Caregiver
@lacasadelcaregiver

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